martedì 14 aprile 2009

TENCONI-LEZIONE PRIMA

L’epidemiologia si occupa dello studio della distribuzione della salute, ricercando i determinanti delle malattie.
L’oggetto dello studio di questa disciplina è la salute tra la popolazione 8dal greco epì+ compl. Di argom. demou)

Il primo compito dell’epidemiologia
, pertanto, consiste nella ricerca dei fattori causali dell’insorgenza di una malattia tra la popolazione.
Es.: studio della correlazione tra numero di sigarette vendute e tasso di mortalità per tumore al polmone
In secondo luogo l’epidemiologia ha il compito di spiegare modalità e dinamiche della diffusione della malattia. Questi due compiti sovente vanno insieme. Es: studio del contagio di colera a Londra nel 1850. La mappatura del contagio consentì l’individuazione dell’acqua distribuita da una delle due compagnie pubbliche come fattore di contagio.
Lo studio della diffusione della malattia viene condotto in base a:
1) caratteristiche individuali (età, sesso, etnia)
2) caratteristiche del luogo di contagio (clima, quota, presenza di corsi d’acqua, mare, paludi, urbanizzazione, presenza di miniere, radioattività, storia del luogo etc.)
3) tempo, in riferimento alla storia della naturale della malattia in genere, ma anche della patologia in un dato luogo e di altre ad essa correlabili.
Studieremo così come si evolve si evolve una forma morbosa e come si passa dallo stato di salute a quello di malattia. A es., se un gruppo etnico perde le abitudini alimentari del paese d’origine, acquisendo quelle del paese ospite, è maggiormente esposto a patologie rispetto al gruppo aborigeno. Es: diffusione del diabete tipo 2 tra i Chicanos e aumento dei casi di infarto al miocardio tra i Giapponesi che, emigrando verso est, si avvicinano agli U.S.A.
In terzo luogo, la nostra disciplina si occupa della storia naturale della malattia: le malattie, specie se di natura virale, evolvono nel tempo, e lo studio della storia naturale chiarisce nessi eziologici, peso dei fattori di rischio, ciclicità della malattia etc.
Infine, l’epidemiologia studia i modi in cui costruire i fattori di salute pubblica. A lungo la medicina è stata vista come una disciplina che si occupa della malattia, non della salute. In età contemporanea, invece, è andata crescendo la sensibilità verso la prevenzione e la costruzione di politiche della salute preventive: campagne contro l’uso di tabacco, di droghe, per l’uso di profilattici, costruzione di sistemi fognari etc.

Nell’interpretazione eziologia di una malattia si tiene principalmente conto:

a) della relazione in base alla sequenza temporale tra esposizione all’agente e insorgenza della malattia;
b) della plausibilità biologic<, v<><><>

L’epidemiologia conosce tre metodi principali
:

I°) Descrittivo
Viene analizzata la distribuzione della malattia o degli indici di salute, avvalendosi di dati statistici. Si tratta di un metodo utile per costruire una prima ipotesi, da verificare poi sul campo.
II°) Analitico-investigativo
Questo metodo ricorre ad indagini trasversali o di prevalenza circa le abitudini dei soggetti che compongono il campione di popolazione studiato e malattie e disturbi registrati nel campione stesso. Questo metodo comprende:
1) indagini trasversali
2) indagini longitudinali, a loro volta distinte in:
a) retrospettive;
b) prospettive
III°) Sperimentale
Si tratta del metodo migliore, ma è quello che presenta le maggiori difficoltà di attuazione. Esso verifica l’esistenza di un rapporto causa-effetto in relazione alla modificazione dell’esposizione a un determinato fattore.
Qualunque indagine epidemiologica deve tener conto dell’esistenza di fattori confondenti, che possono alterare l’entità dell’associazione; ad esempio, l’età nello studio della mortalità come fattore di rischio. Per eliminare tale fattore confondente si ricorre alla standardizzazione, riferendo la mortalità a classi di età e confrontando poi le morti attese con quelle effettive
L’epidemiologia presta grande attenzione all’analisi causale.
Se è nota, si valuta anche la variabilità etnica delle popolazioni esposte. I gruppi etnici, infatti, hanno sistemi immunitari diversi, così come variegate abitudini alimentari e costumi di vita, che incidono sul livello d’insorgenza di alcune malattie, ma questo non dovrebbe incidere sull’efficacia dei vaccini.
E’ evidente che per condurre tutti questi studi, il problema dell’approvvigionamento di dati e della loro verifica è essenziale.

La prima fonte è costituita dalla WHO (Organizzazione Mondiale della Sanità). Ad essa aderiscono teoricamente tutti i 193 stati membri dell’ONU; ma poiché ogni membro è tenuto a versare una quota associativa, non di rado gli stati economicamente più deboli tralasciano il rinnovo della propria adesione.
Inoltre, ogni stato membro ha il dovere di trasmettere periodicamente dati statistici sulle cause di morte per età e sesso, ma anche questo requisito spesso non viene rispettato: innanzitutto, non tutti i paesi hanno efficienti sistemi di rilevazione; anzi, spesso non hanno neppure un sistema sanitario in grado di raggiungere la popolazione, figuriamoci di registrare e rilevare le cause di morte. In secondo luogo, anche se l’organizzazione, per statuto, non interferisce nelle politiche sanitarie degli stati membri, è evidente che diffondere dati sulle cause di morte ha un notevole peso politico (si pensi a quante cose si possono desumere sul tasso di mortalità per morte violenta in paesi con forti criminalità organizzate, guerre civili etc.). La WHO, infatti, diffonde anche dati sulle cause di morte per ogni paese membro
Essa ha diverse sedi, distribuite in tutti i continenti: Brazzaville per l’Africa Nera, Alessandria d’Egitto per il Nordafrica, Managua per il sudest asiatico, New Dheli per il subcontinente indiano, , Bruxelles per l’Europa, Washington D.C. etc., che si preoccupano di approntare programmi di intervento per macroregioni.

Un’altra fonte è l’EU, limitatamente a problemi specifici.

L’OCSE

L’UNESCO

L’UNHCR per quanto concerne i problemi sanitari dei rifugiati

A livello nazionale
, le fonti principali sono costituite da:

ISTAT, che rileva i dati sulle cause di mortalità, sulle malattie infettive (il che è possibile nella misura in cui le autorità sanitarie locali ottemperano all’obbligo di classificare le patologie registrate in base a cinque classi di malattie, fissate per legge).
Va poi ricordato che esiste l’obbligo di denunciare le malattie professionali e gli infortuni sul lavoro (la fonte, in tal caso, è l’INAIL)
Ovviamente anche i dati dei censimenti sono essenziali, poiché da essi ricaviamo i denominatori.

A livello regionale :

eventuali registri di patologia, ove esistenti (ad es. il registro tumori).+
dati accettazioni-dimissioni ospedaliera (SDO)
dati riguardanti le attività degli istituti di cura (ad esempio tassi di mortalità, notifica malattie)

A livello locale:

dati raccolti dalle ASL

CLASSIFICAZIONE DELLE MALATTIE

I criteri usati per classificare le patologie sono molteplic, ma il principale è senz’altro quello etiologico, che raggruppa le patologie per analogia di esperienze ritenute cause della malattia.
Si usa ancora la IX classificazione, risalente al 1975, sebbene sia già stata approntata la X.

In epidemiologia le misurazioni sono incentrate soprattutto sui tassi e sulla frequenza.

T= N/P . K,
dove:
T= tasso
N= numero di casi
P= popolazione
K= costante (100,1000, 104 etc.)

TASSO GREZZO DI MORTALITA’

N morti/(P0+P1/2),
dove
(P0+P1/2)

dove
(P0+P1/2) indica la popolazione residente media.

Si utilizzano sia un tasso generico di mortalità per tutte le cause, sia un tasso di mortalità specifico per ogni causa e/o classi d’età.

MORTALITA’ PROPORZIONALE

Numero di morti per una determinata causa/Numero totale dei morti X 100

Le malattie croniche rappresentano circa il 70% del totale e sono in aumento anche nei paesi in via di sviluppo.

In Italia siolo 1,2% dei decessi è riconducibile a malattie infettive parassitarie e l’incidenza degli incidenti e delle malattie croniche tra le donne è inferiore alla media mondiale.

Un altro indicatore importante in epidemiologia è il DIALYS, che considera il “peso” di una patologia, vale a dire della prospettiva di vita perduta e del numero di anni vissuti con disabilità a causa della malattia.

Nelle zone monitorate dalla WHO esistono condizioni reddituali diverse e si verifica che nei paesi più poveri è molto più elevata non solo la mortalità per malattie infettive, ma anche quelle per malattie croniche.

PREVALENZA E INCIDENZA


La prevalenza ci indica il carico di una malattia tra la popolazione a un dato momento. Viene stabilita attraverso un0analisi campionaria.
L’incidenza, invece, indica il numero di nuovi casi verificati in un intervallo di tempo dato ed indica il rischio della popolazione di ammalarsi.

Tasso di attacco: è costituito dal numero di persone che ha sviluppato la malattia nel breve periodo.

La presenza di immigrati, generalmente in condizioni precarie, ha creato e crea alcuni problemi di sanità pubblica.
La tubercolosi tra gli immigrati tra il ’99 e il ’05 è stata piuttosto elevata, con picchi tra gli immigrati regolari, ma il dato è falsato dal fatto che ovviamente sono più monitorati rispetto ai clandestini. A proposito di questa patologia, va ricordato che l’efficacia del vaccino 8 VCG è affievolita dal fatto che il virus usato per produrlo è di derivazione bovina, poiché il ceppo umano non è attenuabile. Inoltre, prima di decidere un’eventuale reintroduzione della vaccinazione contro la tbc, bisognerebbe procedere con i test della tubercolina, per evitare reazioni allergiche o autoimmuni.

BISOGNI DI SALUTE DEI RIFUGIATI
Nel 2008, il numero di rifugiati nel mondo era stimato in 33 milioni, metà dei quali costituiti da donne e bambini
A differenza degli altri migranti, sono una popolazione mista, quindi più esposti a malattie.
I loro problemi di salute non sono generalmente diversi da quelli della popolazione ospite, ma hanno maggiori difficoltà di accesso alle cure.

SALUTE GLOBALE
Quando un’epidemia inizia a diffondersi (SARS, ebola etc.), l’organizzazione su scala planetaria è essenziale per bloccarla, al fine di scongiurare il pericolo di una pandemia.
L’accresciuta mobilità contribuisce alla diffusione dei virus e per questo è indispensabile una politica della salute su scala planetaria.
Il problema di garantire la salute su scala mondiale, passa anche attraverso una politica di riduzione delle disuguaglianze, cercando di sviluppare approcci multidisciplinari.

I principali obiettivi fissati dalla WHO sono:

1) l’eliminazione delle fasce di povertà estrema;
2) assicurare l’educazione primaria universale;
3) garantire parità di diritti alle donne;
4) ridurre di 2/3 il tasso di mortalità dei bambini al di sotto dei 5 anni di vita;
5) ridurre di ¾ la mortalità per parto e migliorare la salute materna in generale;
6) bloccare la diffusione di malattie infettive come la malaria e altre malattie importanti;
7) dimezzare il numero di abitanti privi di accesso all’acqua potabile;
8) incrementare la partecipazione mondiale allo sviluppo, concedendo maggiori crediti ai paesi in via di sviluppo;
9) garantire l’universalità dell’accesso ai farmaci essenziali

ANTOLOGIA FILOSOFICA (SPUNTI)

"Ciò dunque mediante cui l'individuo ha qui validità ed effettualità è la cultura. La vera originaria natura e sostanza dell'individo è lo spirito dell'estraneazione dell'essere naturale. Questa estraneazione è perciò a un tempo fine ed esserci dell'individuo.; essa è in pari tempo il mezzo o il passaggio sia della sostanza pensata nell'effettualità, sia, viceversa, dell'individualità determinata nell'essenzialità. Tale individualità si coltiva fino a giungere ad essere ciò che essa è in sé e soltanto così essa ha esistenza in sé ed ha esistenza effettuale; quanto essa ha di cultura, tanto essa ha di effettualità e di potenza. Sebbene il Sé si sappia qui effettuale come questo Sé, tuttavia la sua effettualità consistte solo nel togliere il Sé naturale; la natura originariamente determinata si riduce perciò al'inessenziale differenza di grandezza, ad una maggiore o minore differenza di grandezza, ad una maggiore o minore energia del volere. Ma fine e contenuto del volere appartengono soltanto all'universale sostanza stessa,e possono essere solo un universale; la specificità di una natura che diviene fine e contenuto, è qualcosa d'impotente e d'ineffettuale; è una specie che invano e visibilmente si affanna a trasferirsi nell'opera; essa è la contraddizione del dare l'effettualità al particolare, mentre l'effettualità è immediatamente l'universale. Se quindi falsamente l'individualità si riduce alla particolarità della natura e del carattere, ecco che nel mondo reale non si trovano né individualità né caratteri, anzi gli individui hanno l'un per l'altro un eguale esserci; quella presunta individualità è per l'appunto soltanto l'esistenza opinata, che non ha stabilità in questo mondo, dove solo ciò che aliena se stesso, e qundi solo l'universale, riceve effettualità."
(F. W. Hegel, Die Phanomenologie des Geistes; tr. it. Marco Capaccioli Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, Firenze 1960, p. 308)

"La vergogna realizza una relazione intima con me stesso: con la vergogna scopro un aspetto del mio essere[...] Altri è il mediatore indispensabile tra me e me stesso: ho vergogna di me stesso, quale appaio ad altri.. E, con l'apparizione di altri, sono posto in condizione di portare un giudizio su me stesso come su un oggetto.Però questo oggetto apparso ad altri non è una vana immagine nello spirito di un altro. Tale, mmagine, infatti, sarebbe del tutto imputabile ad altri e non mi potrebbe 'toccare'[...] Cposì gli altri non mi hanno rivelato solamente ciò che ero; mi hanno anche costituito su un tipo di essere nuovo che deve sopportare delle nuove qualificazioni. "
(J.-P. Sartre, L'etre et le néant, Gallimard, Pris 1943; tr. it. G. del Bo, L'Essere e il Nulla, il Saggiatore, Milano 1965, pp. 265-266)

"Chi è Dio? Anzitutto, non una fede generica in Dio nella sua onnipotenza ecc. Questa non è autentica esperienza di Dio, ma un pezzo di mondo prolungato. Incontro con Gesù Cristo. Esperienza del fatto che qui è dato un rovesciamento completo dell'essere dell'uomo per il fatto che Gesù "esiste per altri", esclusivamente.
L'esserci-per-altri di Gesù è l'esperienza della trascendenza! Solo dalla libertà da se stessi, solo dall'esserci-per-altri fino alla morte nasce l'onnipotenza, lomniscienza, l'onnipresenza. Fede è partecipare a questo essere di Gesù. (Incarnazione, croce, risurrezione).
Il nostro rapporto con Dio non è un rapporto "religioso" con un essere, il più alto, il più potente, il migliore che si possa pensare - questa non è autentica trascendenza - bensì è una nuova vita nell'esserci-per-altri, nell'essere di Gesù. Il trascendente non è l'impegno infinito, irraggiungibile, ma il prossimo che è dato, di volta in volta, che è raggiungibile."
(D. Bonhoeffer,appunto dell'Agosto 1944, in Wienderstand und Ergebung, Auflage 1985; tr. it. A. Gallas, Resistenza e resa, ed. San Paolo 1988, p.462)

"Il contenuto dell'autoformazione del mondo storico nel presente assoluto è ciò che si chiama 'cultura', ma nel suo fondamento è sempre presente un qualcosa di religioso. Il mondo, nel senso più pieno della parola, trascende le semplici caratteristiche razziali e possiede la sua identità in una religione universale. Il cristianesimo, che si sviluppa dalla fede del popolo di Israele, ebbe questo ruolo di religione universale durante il Medio Evo europeo. In Oriente il mondo non giunse alla formazione di quel mondo in senso pieno, alla stregua di quello occidentale, eppure a me pare che il buddhismo e anche il confucianesimo in Cina potrebbero possedere il carattere di una religione universale.
E' detto che durante l'epoca primaverile e autunnale i cinesi si distinsero dai barbari sulla base dei riti.
Qualcuno potrà pensare che quando il mondo storico - come autodeterminazione del presente assoluto - trascende la razza e prende la forma di un mondo in senso pieno, esso perde tutte le sue varie tradizioni, e il suo peculiare carattere divenga astratto, universale, antireligioso e scientifico. Questa è la tendenza di sviluppo dell'Europa moderna. In quanto autonegazione-eppure-affermazione dell'assoluto dell'assoluto, questo orientamento negativo deve essere originariamente presente lungo la direzione dell'autoaffermazione di un mondo nel senso pieno della parola. Il mondo storico contiene un aspetto che nega l'umanità. L'assoluto non è ciò che dissolve il relativo: il vero assoluto contiene in sé la propria autonegazione. Di conseguenza il relativo non è semplicemente la forma astratta dell'assoluto,ma implica la negazione dell'assoluto: esso è il molteplice che si oppone all'uno."
(Nishida Kitaro, Bashoteki ronri to shukyoteki seikan,1945, in Nishida Kitaro zenshu, vol. IX, Iwanami Shoten, Tokyo 1947-1953; tr. Tiziano Tosolini, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, ed l'Epos, Palermo 2005, p. 221-222)

"La società o lo stile di vita democratico è la liberazione e la dissoluzione di ogni assolutismo. E l'assolutismo, qualunque sia la sua origine o il suo soggetto, è, dal punto di vista della persona umana, come rimanere incatenati in un momento assoluto, e al so interno trattenersi o sprofondarsi.
Ma d'altra parte, questo momento in cui è apparsa una verità, o più ambiguamente, una realtà, è destinato a passare. Passa, ma esige fedeltà e bisogna essergli fedele, ma nel tempo. quella che è stata una visione, dev'essere realizzata. Perché non basta che qualcosa appaia come reale, bisogna realizzarla giorno dopo giorno.
[...]
La soluzione è nella fedeltà, nella duplice fedeltà all'assoluto e alla relatività, a quello che viviamo o vediamo fuori dal tempo e al tempo nella sua corsa implacabile. Per meglio dire, quanto sembra così contraddittorio è semplicemente qualcosa che esiste da molto tempo. E l'etica è la caratteristica della vita della persona umana. Volere qualcosa in modo assoluto, ma volerlo nel tempo e volerlo attraverso tutte le relatività implicate dal fatto di vivere nel tempo.
Si tratta dunque di un includere la vita sociale nella morale, di vivere eticamente in modo completo. La persona umana deve includere nella propria area la società."
(M. Zambrano, Persona y democracia. La historia sacrifical, Fundacion Maria Zambrano, 1958; tr. it. Claudia Merseguerra Persona e democrazia. La storia sacrificale, Siruele 1996, ed cit. Bruno Mondadori 2000, pp. 191-193)

"Ogni relazione sociale, al pari di una derivata, risale dalla presenza dell'Altro al Medesimo, senza nessuna mediazione di immagini o segni, ma grazie alla sola espressione del volto. L'essenza dellla società sfugge se viene considerata simile al genere che unisce gli individui simili. Esiste ovviamente un genere umano come genere biologico e la funzione comune che gli uomini possono esercitare nel mondo come totalità, consente di applicare loro un concetto comune. Ma la comunità umana che è instaurata dal linguaggio - nella quale gli interlocutori restano assolutamente separati - non costituisce l'unità del genere. [...]
Il fatto originario della fraternità è costituito dalla mia responsabilità di fronte a uno sguardo che mi guarda come assolutamente estraneo - e l'epifania coincide con questi due momenti."
(E. Lévinas, Totalité et infini, Martinus Nijhoff, Hague 1971; tr. it. A. Dell'Asta Totalità e infinito, Jaca book,prima ed. Milano 1977, ed. cit. Milano 1990, pp. 218-219)

"Riconoscere il tu come irriducibile a noi, non conoscibile né percepibile nella sua totalità da noi, non corrisponde alle nostre abitudini. U n simile tu, la nostra cultura lo affida generalmente a Dio, e le nostre abitudini di pensare, le nostre abitudini etiche e politiche nei confronti dell'altro qui e ora presenta a noi o con noi - carnalmente, in modo corporale - comportano piuttosto una riduzione dell'altro a noi, al nostro, o una trasformazione dell'altro in un lui o in una lei, cioè in qualche modo in un oggetto di conoscenza o in un oggetto d'amore."
(L. Irigaray,In tutto il mondo siamo sempre in due, tr. Federica Giardini, Baldini-Castoldi-Dalai, Milano 2006, p. 63)

"Forse dovrei aggiungere qualche parola su un aspetto che riguarda la questione della razza che solo l'era post-hitleriana, la seconda metà di questo scorcio di secolo, ha portato alla luce, e che solitamente non viene citato tra gli argomenti contro il razzismo. Si tratta del fatto che ogni questione sulla razza è diventata ormai anacronistica, irrilevqante, quasi farsesca di fronte alla sfida che tutto il nostro ambiente in pericolo getta in faccia all'intera umanità. Preso nella morsa di questa sfida, il genere umano diventa per la prima volta uno solo, che lo sappia già o no, saccheggiando la propria dimora terrena, condividendo il destino della propria rovina, essendo l'unico possibile salvatore di entrambi: la terra e se stesso. Una nuova solidarietà di tutto il genere umano sta sorgendo tra noi. Una colpa comune ci unisce,un destino comune ci attende, una responsabilità comune ci chiama. Nella luce accecante di questo nuovo orizzonte che si apre, i conflitti razziali impallidiscono, e il loro clamore dovrà cadere nel silenzio. Lo so, non cadrà nel silenzio, ma d'ora in poi potremo farlo tacere con un nuovo appello a quel grandioso senso di comunità che mai prima d'ora si era affacciato sull'umanità "
(H. Jonas, Racism; tr. it. Maurizio Vento,Razzismo. Discorso npronunciato a Percoto il 30/01/1993, pubblicato in H. Jonas, Des Gottesbegriff nach Aschwitz. Eine judische Stimme, Suhrkamp Verlag 1989; tr. it. Carlo Angelino, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Nuovo Melangolo, Milano 1997, p.48)
"Nel pensiero occidentale incontriamo il motivo del "tra" in molteplici forme in quanto tale, come mondo intermedio o campo intermedio oppure, in forma latinizzata, come intersoggettività, intercorporeità e interculturalità. Questo "tra acquista un peso specifico solo quando non viene pensato come uno spazio vuoto né come una connessione tra esseri autonomi, bensì come campo evemenenziale all'interno del quale qualcosa e qualcuno diventa ciò che è. Il che include che tra noi accada qualcosa che non si lascia ricondurre a prestazioni individuali. Se prendiamo alla lettera l'interculturalità, essa dice molto di più che una semplice multiculturalità, che comprende una molteplicità di culture; somiglia a un campo magnetico, non a un serbatoio. Ma anche se noi attribuiamo al "tra" un ruolo costitutivo, incontriamo un'ambiguità che fa parte dell'ambiguità dell'estraneo. Il "tra" può essere inteso come una zona mediana, come logos, legge o dirirtto che regola il traffico tra enti indipendenti senza avere essa stessa origine da questo traffico."
(B. Waldenfels,Estraneità, ospitalità e ostilità, in Aa.Vv. Topologia dell'estraneo, a cura di Mauro Ponzi, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 5)

COSA INTENDO PER INTEGRAZIONE (QUESITO POSTO DALLA PROF. CHIARETTI)

“La relazione tra due insiemi che si ha quando tutti gli elementi di un insieme sono anche insieme dell’altro; tsle relazione è, generalmente, indicata con la notazione S?T nel caso dell’inclusione stretta, cioè se esiste un elemento a di T che non è membro di S; è invece indicata con la notazione S?T se l’inclusione è debole, cioè se i due insiemi possono anche essere identici[…]”
(Collins Reference Dictionary of Matematics, 1989 Borowski-J.M. Borwein; tr. Andrea Stracca, Dizionario Collins di matematica, 1a ed. 1995, 2a 1998, Roma, Gremese Ed., p. 192).

Quando ho iniziato a riflettere su una possibile definizione dell’inclusione sociale, la mia mente è corsa subito alla matematica. Non si tratta di una bizzarria, se ci si pensa bene: quando parliamo di gruppi sociali ed eslusione, abbiamo proprio in mente l’insiemistica, pensiamo a un diagramma di Venn, in cui qualcuno è dentro e qualcuno è fuori.
Leggendo la definizione, tuttavia, mi è balzato subito all’occhio un fatto: in sociologia, parlando di inclusione, abbiamo sempre in mente l’inclusione in senso stretto; anzi, l’inclusione debole è in contraddizione con l’idea stessa di inclusione: se due insiemi coincidono, sono sovrapponibili, non si pone neppure il problema di includere i membri di questo insieme.
L’idea che abbiamo in mente, piuttosto, è quella di un insieme diviso in più sottoinsiemi: ad esempio, l’insieme di tutti gli abitanti di un determinato territorio viene diviso tra i due sottoinsiemi “cittadini” e stranieri. Questi due sottoinsiemi, a loro volta, sono divisibili in altri sottoinsiemi, in alcuni casi intersecabili tra loro: per classi di reddito, età, Paese d’origine, genere etc.
Questa prima, banale considerazione dice già molto del nostro modo di pensare la società e i processi di inclusione. In senso stretto, infatti, l’insieme degli immigrati è GIA’ incluso in quello degli abitanti il territorio nazionale, ma ovviamente non è questo il tipo di inclusione che abbiamo in mente. Per capire cosa intendiamo per inclusione sociale, pertanto, dobbiamo partire dalla definizione dell’insieme in cui si vuole realizzare l’integrazione. Il che, mi pare, non è scoperta da poco: tutte le problematizzazioni sul tema dell’esclusione e della marginalità, infatti, hanno come punto di partenza lo studio dell’insieme degli esclusi, delle categorie emarginate, non dell’insieme di inclusione, che rimane come un dato implicito.
Allora, proviamo a chiederci cosa intendiamo quando parliamo di esigenza di integrare gli stranieri: vuol forse dire che auspichiamo un’integrazione debole, cioè la completa sovrapposizione dell’insieme deiu cittadini con quello degli abitanti, come avverrebbe tramite la concessione a tutti gli stranieri della cittadinanza (può sembrare un esempio estremo e bizzarro, ma bè esattamente quanto avvenne con l’editto di Caracolla)? Ovviamente no: non solo nonb è auspicabile, ma neppure utile. Infatti, anche in una società priva di stranieri esiste esclusione sociale. Se, tuttavia, intendiamo l’idea di cittadinanza noon in senso strettamente giuridico, ma in senso “qualitativo”, quale pieno accesso a diritti sociali, salute, istruzione e partecipazione alla vita democratica, ecco che abbiamo una prima approssimazione all’idea comunemente accettata di integrazione.
Questo significa, in ultima analisi, che l’idea di integrazione che circola in una società, è lo specchio dell’immagine che la classe dominante ha di se stessa. Integrarsi, nella nostra società, significa diventare membro della classe borghese.
“Perché c’è – ed eccoci al punto – un’idea sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante.
In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere se non la storia borghese.” (P.P. Pasolini Lettere luterane. Il progresso come falso progresso, Torino, Einaudi, 1976, ed. 2003. p. 12).
Pasolini coglie appieno il punto, ma cade nello stesso errore: pochi mesi prima di scrivere queste pagine uscite postume, lo scrittore e regista incontrava studenti “Africani” per parlare con loro del suo progetto per un’Orestiade africana: il documentario ci restituisce l’immagine di un Pasolini che teorizzava che in “Africa” stesse sorgendo una democrazia moderna oltre il tribalismo, così come nella Grecia arcaica si era passati dalla legge patriarcale delle Erinni al sistema democratico dell’Areopago.
Lo stesso intellettuale che descrive lucidamente gli effetti devastanti prodotti dalla integrazione delle culture popolari nell’unica cultura borghese, sembra non porsi alcun problema del genere allorquando si parla di riduzione di tutte le culture alla cultura borghese. Perché?
A mio avviso, ciò dipende dal fatto che, al momento in cui Pasolini scriveva, l’integrazione (o, meglio, la dissoluzione) delle culture popolari nell’unica cultura borghese era già un fatto compiuto; pertanto se ne poteva parlare come casi particolari vdell’unica cultura esistente: quella di Pasolini era un’operazione poetica, a tratti “archeologica”, un recupero colto di qualcosa che nell’esperienza delle classi dominate non esisteva più, se non a livello di vago (e vergognoso) ricordo.
La diversità fra culture europee ed extraeuropee, invece, non rientrava (e per me non rientra) ancora in questo campo: l’unico modo in cui un intellettuale poteva parlarne era ed è il ricorso (intrinsecamente violento) all’analogia.
Sentiamo spesso frasi quali “là vivono come noi sessant’anni fa”, oppure “là sono rimasti al Medioevo”, trascurando il fatto che tra XIII e XIV secolo l’Afghanistan era molto più fiorente dell’Italia o che ottant’anni fa gli intellettuali magiari lanciavano appelli per fermare l’avanzata della dittatura in Italia (pur essendo già alle prese con la loro).
Più che un problema di razzismo, è un problema di filosofia della storia: siamo abituati da almeno due secoli a pensare il progresso come qualcosa di lineare, con un punto di fuga che è allo stesso tempo la fine (o il fine) della storia: progresso industriale, socialismo o avvento del Messia non fa troppa differenza, abbiamo bisogno di credere che il movimento storico sia lineare (sebbene il fantasma di Vico si agiti sempre dietro le riflessioni tanto di Hegel che di Marx).
Il disagio della c.d. postmodernità, stsa appunto nella scoperta del fatto che non esiste un sistema di riferimento in grado di garantire la costanza del progresso.
Torniamo al nostro diagramma di Venn: il cerchio che rappresenta l’insieme – qualsiasi insieme – è disegnato in un contorno (il foglio) che rappresenta l’insieme universale. Questo insieme, come mostrato dal paradosso di Russell, non può essere onnincludente, poiché ogni insieme ha un numero di elementi strettamente superiore a quello dei suoi elementi.
Qualcosa di analogo avviene nel paradosso del progresso: ogni inclusione produce nuove esclusioni, perché la somma di tutti i gruppi sociali (le cui identità sono trasversali, molteplici, frammentarie,) trascende la “cifra” della società stessa.
Ecco perché, proprio nel momento in cui, attraverso la globalizzazione dei processi economici (del resto il capitalismo nasce globale), il sistema di organizzazione economico-sociale occidentale parrebbe destinato a una definitiva affermazione su scala planetaria, esso si frantuma in una molteplicità crescente di particolarismi (si pensi alla definizione coniata da Enzesberger, di “guerra civile molecolarizzata”).
Pertanto l’integrazione di un gruppo produce nuove esclusioni e, con esse, la ricerca di nuove politiche di integrazione. L’integrazione è logicamente impossibile, ma la tendenziale inclusione di tutti i gruppi sociali è non di meno necessaria.

domenica 12 aprile 2009

CONFALONIERI-PRIMA LEZIONE

La prima fase di un processo politico è, l’iscrizione, l’individuazione di un problema come problema di rilevanza pubblica
Il termine “agenda” designa l’ordine delle priorità delle attività che la pubblica autorità si prefigge.
L’agenda decisionale, più ridotta rispetto all’agenda politica, identifica tra i problemi dibattuti in una società, quelli meritevoli di intervento.

La formazione dell’agend
a è l’esito di una competizione: le risorse umane e finanziarie sono limitate, pertanto gli attori sociali competono per ottenere spazio e risorse per le proprie istanze.
I modi in cui un problema entra in agenda sono molteplici. Generalmente un problema inizialmente discusso da un gruppo elitario, arriva all’attenzione dell’opinione pubblica a seguito di eventi di cronaca, o persino attraverso opere narrative o cinematografiche.
Ad esempio, è dagli anni ’20 almeno che esiste una letteratura scientifica sull’inquinamento legato all’antropizzazione e ai gravi squilibri da essa cagionati; ma fu solo a partire dagli anni ’70-’80, con la pubblicazione di libri come “Primavera silenziosa” (), sciagure come Bhopal e Cernobyl (o Severo in Italia), fatti di cronaca come l’omicidio di Chico Mendes, che l’opinione pubblica scoprì, dapprima in modo confuso, le varie emergenze ambientali.
In questa fase, la problematica inizia ad essere problematizzata sotto vari aspetti: studi economici, giuridici, opere artistiche che affrontano l’impatto emotivo, discussioni filosofiche etc.
Parallelamente, man mano che si sviluppa il dibattito, sorgono dei soggetti che si danno lo scopo precipuo di promuovere l’attenzione della pubblica autoritàà sulla tematica, avanzando proposte di soluzione: ad esempio, nel caso dei problemi ambientali, si è assistito a un proliferare di associazioni ambientaliste e/o ecologiste.
I gruppi e i soggetti che si occupano di portare un problema all’attenzione dell’opinione pubblica, sono detti “imprenditori politici”.
Mentre le lobby, generalmente, sono gruppi di pressione esterni alla compagine istituzionale e che preferiscono influenzare l’attività dei poteri legislativo ed esecutivo, gli imprenditori politici sono spesso interni alla classe politica o lo divengono: si pensi, ancora, al sorgere di partiti “verdi” in tutta l’Europa occidentale a partire dagli anni ’80.
Nell’ambito degli imprenditori politici, una particolare menzione meritano le coalizioni di advocacy, termine col quale indichiamo le organizzazioni che si preoccupano di fari “avvocati”, farsi portavoce di una categoria svantaggiata che non è o non è ancora in grado di portare avanti da sé le proprie rivendicazioni (questo si vede nel caso delle associazioni di italiani che, a vario titolo, conducono battaglie per i diritti degli immigrati extracomunitari).
Il problema pubblico è sempre una costruzione sociale.
Si selezionano alcuni aspettti della realtà, individuandoli come problematici, individuando le agenzie competenti alla risoluzione,. Ovviamente questa individuazione è strettamente connessa al modo bin cui il problema è stato tematizzato, al frame, la cornice, in cui esso è stato inquadrato.
Il framing (inquadramento), consiste da un lato nella selezione di aspetti considerati salienti per l’approccio a un processo sociale ritenuto problematico; dall’altro mira vad accrescere la salienza di questi aspetti come cruciali, così influenzando sul tipo di risposta predisposta (con un continuo feed-back tra i due aspetti).
Ad esempio, nel caso dello stupro, per oltre diciassette anni è stato bloccato il ddl che mirava a superare le due fattispecie di atti di libidine violenta e di violenza carnale, creando un’unica fattispecie di violenza sessuale. Il tipo di frame in cui si inquadra il fenomeno, in questo caso, si riflette direttamente sulla teoria del bene giuridico sottostante: non più la moralità pubblica, ma la libertà sessuale della donna, tutelata come diritto soggettivo.
Il framing presenta anche una componente cognitiva, inerente le credenze diffuse nel corpo sociale circa i fattori che hanno dato origine al problema.
Possiamo poi individuare una componente normativa, identificabile con la componente che stabilisce i criteri valoriali di riferimento.
Vi è poi una componente prognostica, poiché gli imprenditori politici non vogliono semplicemente fare emergere un problema, secondo un determinato frame, ma il loro scopo precipuo è indurre la pubblica autorità a prendere atto del problema, approciandolo secondo modalità che gli stessi imprenditori politici ritengono adeguati
Anche il nome, l’espressione usata per indicare un determinato intervento rientra nella costruzione del frame (|Lakoff fa l’esempio dell’espressione “tax relief”, usata dai conservatori per definire un intervento fdi riduzione fiscale: lespressione sottende l’idea che le ttasse siano un male, un peso che grava sul povero cittadino come un mal di testa o uno stato d’apprensione)
Lo stesso vale per l’espressione usata per definire il problema: uno dei frame più usati negli U.S.A. sul tema dell’immigrazione è quello dell’immigrato irregolare; nl’espressione indica già la prospettiva in cui si inquadra il problema, cioè legalista e securitaria ed indica già l’aspetto prognostico, cioè l’idea che il problema si risolva rafforzando i controlli alle frontiere.
Secondo Lakoff esistono modi alternativi di inquadrare il problema.
Gastarbeiter . e’ il frame adottato in Germania fino agli anni ’70. esso è un tipico caso di frame funzionalista, poiché – appunto – pone laccento sulla funzione che l’immigrato deve svolgere: Gastarbeiter, infatti, significa “lavoratore ospite”: in un paese che, piuttosto che come paese di immigrazione, si è a lungo concepito come paese in forte espansione economica, bisognoso di manodopera, la presenza straniera veniva appunto funzionalizzato il ruolo dello straniero, che non è altro che forza lavoro, transitoriamente presente sul territorio nazionale (sarebbe interessante qui approfondire la scissione tra lavoro e diritti di cittadinanza, che va prendendo piede anche in Stallia, che pure è, secondo l’art. 1 comma 1° della carta Costituzionale “una Repubblica fondata sul lavoro.”).
In questo frame è normale l’idea che la presenza degli immigrati sia legata strettamente al ciclo economico. Infatti, durante la crisi economica degli anni ’70, con la stagflazione, si sviluppò la corrente di pensiero che chiedeva l’allontanamento degli stranieri, visti come manodopera eccedentaria. Era il tipico paradigma dell’economia fordista-taylorista.
La versione aggiornata del Gastarbeiter chiede che l’immigrato sia accolto solo in presenza di determinate qualifiche: questo frame ha indirizzato il legislatore verso il sistema dei permessi “a punti”.
Le politiche, in questo caso, non sono più securitarie, ma economiche, trascurando l’integrazione con la società ospite e la riunificazione con la famiglia di origine. Non per nulla è il frame di cui si fanno portabandiera i settori imprenditoriali.
Un modello estremo di Gastarbeiter è offerto dalle vpolitiche migratorie dei paesi del Golfo Persico (vedi lezione del 21/03/2009).

Ovviamente, nella realtà le cose non sono mai così rigide: l’interazione di imprenditori politici diversi, produce frames ibridi.

D.: perché gli individui compiono azioni che contraddicono le loro affermazioni, il loro frame?Ad es: affermano di detestare gli immigrati, dicono che sono tutti delinquenti, ma sono amici del loro vicino straniero?
R.: non tutti gli individui avvertono l’esigenza di sistemi congruenti.

Snaw e Badford, sostengono che il frame ha successo quando riesce a descrivere esperienze (o impressioni) diffuse (c.d. comunicabilità esperienziale).
L’altro elemento di successo sta nel saper evocare elementi assiologici presenti nella società di riferimento.
Ad es.: quando si invocano politiche redistributive, nel mondo anglosassone si fa tipicamente ricorso alla retorica patriottica, all’esigenza di “stringersi intorno alla bandiera”; ma è discutibile che questo argomento abbia appeal nella cultura italiana, in cui l’idea di patria è sempre stata debolissima se non assente; il solidarismo di tipo cattolico o l’invocazione dei benefici che politiche redistributive porterebbero a livello di enti locali, senza dubbio avrebbero più successo.
Esiste un frame progressista, quello del “rifugiato economico”. E’ un frame inquadrato sempre dal punto di vista economico, però non più in una prospettiva utilitaristica come quella del Gastarbeiter, ma in un’ottica solidaristica. La parola “rifugiato”, infatti, evoca l’idea di qualcuno che ha dovuto lasciare il paese d’origine come risultato di condizioni economiche e politiche sfavorevoli.
“Per doppio spazio politico intendo sia la costituzione di nuova fedeltà al paese di recente insediamento, sia l’allentamento dei legami con il paese o laegione di origine, . i migranti interiorizzano il ‘senso dello stato’ del paese di adozione oppure lo rifiutano in nome di vecchie lealtà o di un nuovo cosmopolitismo, ma in circostanze che essi non scelgono e che dipendono dallo spazio che essi si ricavano per l’ingresso nell’arena politica. La categoria di doppio spazio politico è dunque applicabile soprattutto alle migrazioni internazionali moderne. A lungo e ancora per i primi decenni di questo secolo gli Stati del Nuovo Mondo hanno tacitamente accettato una categoria oggi caduta in disgrazia, quella di perseguitati economici, sapendo in anticipo che il loro arrivo – anche se si trattava di bianchi – avrebbe comunque determinato tensioni sociali nel medio e lungo periodo. Gli stati che li espellevano cercavano di spingerli lontano, al fine di eliminarli definitivamente dalla scena politica interna. In questa condizione lo stato moderno ha accettato il tentativo da parte degli immigrati di mantenere questo doppio spazio politico, configurandolo come una fatica di Sisifo; il suo atteggiamento è di cauta pazienza, ma questa si muta in intolleranza nei period di tensione internazionale e di guerra. In taluni casi l’atteggiamento di tolleranza è risultato vincente. Il mantenimento dei legami dei migranti con il paese d’origine e con il paese di destinazione ha episodicamente fornito agli stati moderni qualche strumento per influenzare il corso politico del vecchio e del nuovo paese.” (Ferruccio Gambino, La trasgressione di un manovale: Malcolm X nella desolazione americana, in Malcolm X, Con ogni mezzo necessario, Shake ed., Milano 1970, 2° ed. 1992, p. 1)
una caratteristica del frame. È che esso può sopravvivere al venir meno degli elementi materiali che ne hanno determinato l’insorgenza o, a fortori, restare immutato anche allorquando il problema ha mutato natura, ovvero ancora quando il gruppo che l’ha affermato non è più egemone.
Ad esempio, l’Italia ha continuato a pensarsi come un paese di emigrazione, il che ha sin qui impedito la riforma della legge sulla cittadinanza.
Per mantenere in vita un movimento collettivo sono ugualmente necessarii:
1) incentivi collettivi, cioè la tensione verso obiettivi comuni da raggiungere. Ove essi non siano più raggiungibili, vanno rimodulati
2) incentivi individuali, sono costituiti da processi di socializzazione che gratificano l’individuo, facendolo sentire parte di un gruppo (ad esempio, la sede di partito è anche un luogo di incontro con amici) e questi obiettivi sono garantiti solo dall’organizzazione.
Gli imprenditori politici competono per l’attivazione della pubblica autorità sul proprio frame, cioè per farlo entrare in agenda.
L’agenda politica è costituita dall’insieme dei problemi di pubblico interesse.
Cobb e Elder definiscono tre modalità di intervento degli imprenditori politici sull’agenda:
1) outside initiation: organizzazioni, associazioni, componenti della società civile, attraverso campagne informative, petizioni, manifestazioni eccetera, portano un problema all’interno dell’arena politica.
I partiti dovrebbero essere in grado di mediare queste istanze in conflitto, traducendole in termini politicamente tollerabili.
2) Inside: possono essere alcuni esponenti politici a suscitare un problema per recuperare consenso.
Es: riconquista delle Malvinas in Argentina e di Cipro in Grecia.
3) Competizione burocratica: i burocrati hanno interesse a sollevare un problema per acquisire nuove competenze e con esse risorse.
Es: Commissione Europea.
Di fronte alla richiesta di un problema in agenda, si possono riscontrare diverse risposte:
1) risposta negativa
2) risposta simbolica: si afferma che occorre intervenire, si creano commissioni di inchiesta, producendo studi e ricerche, , ma non si ha alcuna reale azione
3) si ammette l’esistenza del problema, ma si nega la possibilità di intervento, per scarsità di risorse o per incompetenza funzionale dell’autorità chiamata in causa dall’imprenditore politico
4) rinviare il problema, magari accompagnando il rinvio con interventi simbolici
5) intervento complessivo
6) autorità lungimirante: è l’ipotesi in cui l’autorità prevede il problema e predispone la risposta. Per questo esula, in qualche modo, dai casi qui analizzati.
Se si rafforza la coalizione che sostiene un problema, per la classe politica diventa proporzionalmente meno conveniente negare l’esistenza dello stesso e diviene indispensabile almeno una risposta simbolica.

Ciclo politico-elettorale: alcuni problemi risentono del ciclo politico, ad esempio in campagna elettorale nessuno (o quasi) parlerà di aumento delle tasse o di altri temi impopolari, che si affrontano più facilmente in fasi di consolidamento del potere.

FORMULAZIONE DI UNA POLITICA
Questa fase va dall’inserimento in agenda di un problema, all’assunzione di una decisione.
Abbiamo visto come nella fase dei predisposizione dell’agenda, il frame che viene accolto indica già delle linee guida. Si tratta poi di predisporre i mezzi necessari ad attuare una politica.
Un’importante fonte di policy making è lo studio delle esperienze fatte sul medesimo problema in altri Paesi. Spesso vengono effettuati trapianti normativi per risolvere problemi urgenti o analoghi. La Commissione Europea incentiva questa pratica sotto l’etichetta di “buone prassi”.
Un’altra fonte di possibili soluzioni è quello delle tradizioni nazionali o modelli standard. In Italia, ad esempio, le sanatorie.
Individuate le possibili alternative, si stabilisce quali siano le più praticabili, quindi si cercano meccanismi per la creazione del consenso.
Tipicamente, nella fase in cui si esaminano le opzioni di intervento, sono tecnici e burocrati ad avere un ruolo propulsivo.
In generale possiamo dire, con Weber, che l’idea democratica per cui a decidere è il popolo e ad eseguire sono i burocrati, è inficiata dal fatto che i burocrati sono stabili, perciò hanno un vantaggio strategico sulla classe politica, che è mutevole e deve “inseguire” il consenso.
In Italia, negli ultimi quindici anni, si è andato affermando il principio dello spoil system.
Accanto alla burocrazia possono esserci altri soggetti, a seconda che il processo decisionale sia più o meno aperto.
In questa fase, ciò che si fa dipende dagli attori chiave e da quelli che sono i loro orientamenti
La quantità di attori ha conseguenze diverse: avere molti attori garantisce più pluralismo, democraticità e una visione più obiettiva; ma crea problemi di coordinamento, costi e intempestività nell’assunzione della decisione.

LA DECISIONE

Modelli decisionali
I modeli decisionali sono costrutti analitici, vale a dire che non rispecchiano il modo in cui la decisione avviene effettivamente, né hanno un valore prescrittivi. Sono, invece, modelli teorici, che descrivono tipologie di massima.
Possiamo innanzitutto distinguere i modelli di problem solvine, che pongono l’accento sul lavoro dei decisori, distinguendoli dai modelli che enfatizzano la mediazione del conflitto, dando così un 4rilievo particolare alle aspettative degli attori sociali in gioco.

Modello della razionalità sinottica: è un modello puramente ideale, che presuppone un decisore unitario il quale, divenuto consapevole di un problema, fissa un obiettivo cui associa tutte le possibili soluzioni ed è in grado di valutare di ciascuna il rapporto costi/benefici e l’ottimo paretiano.
Se mai può darsi un modello simile nella realtà, esso vale solo per problemi molto semplici.

Modello della razionalità: si parte dall’assunto realistico che i decisori hanno limiti fisici e cognitivi, quindi non sono in grado di calcolare tutte le possibili alternative e le loro conseguenze nette, ma semplificano, scremando elementi di complessità e ricorrono frequentemente all’analogia. Secondo questio modello, i decisori hanno una tendenza routinaria e la logica non è quella di perseguire una ottimizzazione, ma di assumere una decisione che sia considerata soddisfacente dal maggior numero di attori.
In particolare, secondo il modello di Simon, dopo aver valutato le conseguenze nel breve-medio periodo, il decisore assume quella le cui conseguenze appaiono complessivamente più accettabili.

Incrementalismo (modello di Lindblam).
Questo modello tiene particolarmente conto di alcuni fattori:
1) dei vincoli di natura cognitiva immanenti alla razionalità umana.
In questo modello, perciò, il decisore non è unico, ma frammentario, diviso tra soggetti portatori di valori eterogenei.
2) La negoziazione: i fini non sono univoci, ma devono essere contrattati tra gli attori sociali
3) Il consenso: la scelta ottimale non è più quella più efficiente secondo l’analisi costi/benefici, ma quella che raccoglie il più ampio consenso, garantendo una certa cooperazione: infatti, se una decisione è ottimale, ma non raccoglie consenso e non ottiene cooperazione a vari livelli, è di fatto inefficace (qui viene già anticipato il problema dell’implementazione).
Il modello dell’incrementalismo è pertanto la condivisione della scelta. L’Autore, nel saggio “Intelligence of Democracy”, sostiene che una pluralità di decisori partigiani accresce la mole di informazioni e di conoscenze rispetto a quelle che potrebbe raccogliere un decisore unico e tecnocratico (come visto retro, tuttsvis, questo modello pone problemi di costi, tempistica e coordinamento). Ciò è particolarmente evidente nei processi decisionali involgenti processi sociali ad alta conflittualità.

Tendenzialmente le decisioni vengono assunte valutando il rapporto costi/benefici, ma solo sul breve periodo.
La convergenza delle posizioni verso quelle dell’elettore mediano, riduce le differenze tra destra e sinistra, ma ci sono altre dimensioni della competizione: quella tra laici e credenti, tra centralismi e federalisti etc. e questo aumenta la competizione interna ai partiti. Possiamo riassumere dicendo che lo spazio politico non è monodimensionale, ma pluridimensionale. Perciò le indicazioni che emergono dal processo decisionale sono sempre più di compromesso.

Modello “cestino dei rifiuti”.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il processo decisionale non è affatto così sistematico. Talora, a esempio, la soluzione può emergere prima che emerga il problema, ovvero gli attori sorgono solo dopo l’istanza del problema etc. In tutte queste ipotesi si è soliti parlare di anarchia organizzata.

La politologa francese Girodon ha analizzato la frequenza con cui sono emerse le decisioni in materia di:
a) diritto di asilo;
b) norme antidiscriminazione
Nel caso del diritto d’asilo, sono emersi prima gli attori, nello specifico funzionari che hanno iniziato a collaborare tra loro, dapprima isolatamente, quindi in modo organico in applicazione degli Accordi di Schengen, che essi interpretano in termini di frontiere, sistemi di controllo e scambio d’informazioni. Essendo funzionari del Min. degli Interni, essi prediligono la soluzione securitaria.
Solo successivamente, con la fine del mondo bipolare, emerse anche la tematizzazione del problema: la migrazione viene vista come una delle minacce del “dopo Muro di Berlino”..
Quindi, venne creato a livello comunitario un dipartimento sicurezza affari interni, dando origine alla PESC (il terzo pilastro dell’Unione).
Nel caso delle norme antidiscriminazione, emerse prima l’attore, all’interno della direzione generale affari sociali, direzione D4, con competenze legate alla libera circolazione e all’immigrazione. Rispetto ad altre, questa non è una lobby molto forte, poiché è molto divisa al proprio interno.
Il problema fu posto in termini di lotta all’emarginazione sociale, riuscendo a far iscrivere l’obiettivo nel Trattato di Amsterdam (1998).
La normativa antidiscriminazione era nata contro le discriminazioni per sesso; solo successivamente si pose il problema di estendere l’intervento alle discriminazioni verso gli stranieri. La giurisprudenza e la prassi sviluppate in materia di discriminazione di genere, sono state così lòa base per la lotta ad altre forme di discriminazione.

Quindi, il modello “cestino dei rifiuti” si presta bene a descrivere un fenomeno assai diffuso nelle istituzioni europee. Infatti, il monopolio normativo della Commissione, aumenta notevolmente il peso della burocrazia e crea un problema di deficit democratico.

IMPLEMENTAZIONE.

E’ la fase in cui le decisioni producono (o meno) i propri effetti.
E’ ancora diffusa l’idea che il processo decisionale termini con l’assunzione del provvedimento, senza aver riguardo alla fase applicativa.
In realtà, è essenziale tenere conto dell’implementazione già nelle fase anteriore, altrimenti si va incontro al serio rischio di una normativa ottima in teoria, ma resa del tutto inutile dalla non collaborazione del potere esecutivo, degli enti locali o da problemi tecnico-organizzativi (anche per questo è utile aprire tavoli di discussione allargati a enti locali e operatori del settore che poi dovranno applicare i provvedimenti).

Il p’rimo pregiudizio in proposito. È che i burocrati siano neutrali rispetto alle scelte assunte dal Legislatore.
Il secondo pregiudizio consiste nella convinzione che la burocrazia funzioni esclusivamente sulla base di automatismi rigidamente gerarchici.
Loa “scoperta” di questa fase e della sua importanza avvenne in uno stato federale (gli U.S.A.) e in un periodo (gli anni ’70) caratterizzato dalla contrazione economica.
In quell’epoca Pressnam e Wilawisky pubblicarono il loro studio “Implementazione: come le grandi ambizioni di Washington finiscono ad Okhland” e affrontò per la prima volta il problema dell’interferenza burocratica sulla fase esecutiva.

I due studiosi identificarono come tipologia di approccio tipica dei processi decisionali standard, quella detta top-down, fondato appunto sulla premessa che una politica è compiuta al termine del processo normativo.
L’obiettivo di Pressnam e Wilawsky, invece, era di studiare se e in che misura gli obiettivi alla base del processo decisionale siano raggiunti durante l’attuazione; d’altra parte, meno agenzie vengono escluse dal processo decisionale, maggiore è la possibilità ch’essecreino ostacoli in seguito. L’ideale sarebbe uno stato snello, ma l’efficienza non è l’unica esigenza da soddisfare; per esempio, quanta democraticità siamo disposti a sacrificare in nome dell’efficientismo?.
Innanzitutto fu chiaro che più agenzie sono coinvolte nel processo decisionale, maggiore è la dispersione di risorse durante la fase attuativa (potremmo parlare di filiera lunga). Da ciò possono discendere due ordini di problemi:

1) innanzitutto l’estensione delle agenzie che possono contrastare o collaborare all’attuazione della politica, sotto tre aspetti:
a) maggiore o minore ostilità al programma
b) risorse a disposizione degli attori in gioco
c) grado di “ideologizzazione” dei soggetti nell’approccio favorevole o avverso alla politica da porre in essere
2) Il contrasto avviene a livelli diversi dello Stato (centro-periferia) e produce spinte e controspinte nell’attuazione del programma. In Italia, in un contesto caratterizzato da una forte stratificazione amministrativa e da una marcata ideologizzazione, questi contrasti sono molto forti.

In lina di massima si può affermare che il ritardo attuativo è funzione di:
1) punti di decisione, in modo direttamente proporzionale;
2 ) numero dei partecipanti, sempre con proporzionalità diretta;
3) direzione e intensità del consenso/dissenso, in modo non definibile con regole a priori.

Per una miglior implementazione sono essenziali:

a) la semplificazione normativa;
b) il dialogo e coordinamento tra le diverse agenzie

Secondo altri autori, tuttavia, le cose non stanno così: l’efficacia delle norme dipende dall’interazione centro-periferia, pertanto esse dovrebbero essere costruite partendo dallo studio di quanto avviene “in basso”. Ciò si può fare, ad esempio, iniziando a sperimentare delle politiche a livello locale ed estendendole a livelli più ampi solo successivamente, ove si siano mostrate efficaci, apportando i correttivi che si dovessero rendere necessari.

martedì 24 marzo 2009

TAJABONE

Ta, Tajebon dañuy e tajebón
ta, Tajebón dañuy e tajebón
Abdu u jambal ñari malaicalá

xawe e ticon daru siseron
momun munidá degan julingán
momun munidá dengan wongán

xawe e ticon daru siseron
momun munidá degan uxuligán
momun munidá degan wongán

Tajobon dañuy e tajebon
Tajobon dañuy e tajobon

Wooleuy, wuleuy, wuleuy, wuleuy...abdu yambbarr
(wooleui) ñari malaicala
(wooleui)chicoley jogué
(wooleui) danu siserron (wooleui)munilá
(wooleui)degan yuligán (wooleui)munilá
(wooleui)degan wongán (wooleui) ahhh...
ISMAEL LO

mercoledì 18 marzo 2009

GIULIANA CHIARETTI-LEZIONE N. 1

E’ preferibile usare il termine planetarizzazione,, introdotto da A. Melucci nel suo “Passaggi d’epoca” piuttosto che il termine globalizzazione, che ha una valenza prevalentemente economica.
Il tema delle migrazioni si presta a farci comprendere come le relazioni siano sempre planetarie, legate al pianeta.

Ogni anno la Caritas pubblica un rapporto sulle migrazioni, incentrato di volta in volta su una tematica specifica, che ci fornisce un quadro sull’evoluzione e lo stato dell’immigrazione in Italia.

Fino a un decennio fa gli studi scientifici omettevano programmaticamente lo studio della condizione del/nel paese d’origine. Solo negli ultimi anni l’approccio è mutato e si è iniziato a studiare il fenomeno senza scindere lo scenario di provenienza da quello del paese di destinazione.

Perché ha senso parlare di migrazioni in una prospettiva di genere? Come si caratterizza la presenza delle donne immigrate nella nostra percezione?

!) la donna capofamiglia: arrivando in Italia, la donna produttrice di reddito si emancipa e acquista un ruolo che non aveva nel paese d’origine.
2) la donna immigrata vive una condizione di marginalità, di debolezza, di invisibilità, quando non addirittura di sfruttamento e sottomissione.
3) ha senso studiare l’immigrazione in una prospettiva di genere, perché la differenza di genere è l’archetipo di ogni incontro/scontro con l’Altro, sulla quale si modella ogni ulteriore immagine dell’alterità. Inoltre la donna ha un ruolo educativo centrale, che passa soprattutto attraverso la lingua madre.
4) gli uomini hanno maggiori possibilità di integrarsi nella società del paese ospite, pertanto esiste un problema di integrazione specifico delle donne migranti.
In questo senso potremmo dire che la prospettiva di genere è funzionale ad interventi di empowerment. Nei servizi sociali si usa questo termine per indicare i programmi volti a valorizzare le capacità inespresse.
5) donna forte, rettiva, capace di suscitare maggiore empatia.

Questi modelli costituiscono i nostri pre-giudizi, la nostra pre-comprensione. Dopo averli compresi, dobbiamo cercare di tralasciarli, per metterli alla prova della realtà.
Queste convinzioni hanno un retaggio culturale, di esperienze, di idee diffuse, ma è importante prenderne le distanze.

Ehreich B. e Russel Hochschild A. „Donne globali“, Feltrinelli

META’ DIE MIGRANTI NEL MONDO SONO DONNE. IN EUROPA RAPPRESENTANO IL 54% DEL TOTALE, IN ITALIA IL 49%.
Questo elemento richiede un’ulteriore analisi di genere, perché questa straordinaria presenza delle donne è ciò che caratterizza i processi migratori contemporanei rispetto alle migrazioni dei secoli passati. Il protagonismo delle donne nei processi migratori, giustifica di per sé un’analisi in termini di genere.

I principali fattori di queste maggior presenza femminile sono:

1) la disuguaglianza
. La disuguaglianza è il principale fattore alla base dei processi migratori. A tale proposito va notato che il rafforzamento dell’interdipendenza ha polarizzato le disuguaglianze, globalizzandole. Oggi, cioè la differenza tra gli strati più alti della popolazione e quelli più poveri è più stridente che in passato, con un progressivo “assottigliamento” del ce5to medio. In secondo luogo, questa disuguaglianza colpisce maggiormente le donne.
Le dimensioni più rilevanti della disuguaglianza sono:
a) di classe:
b) di genere;
c) etniche
d) di generazione.
Quando si parla di estremizzazione delle differenze, si fa riferimento esclusivamente a differenze di reddito, ma ovviamente queste discriminazioni si combinano tra loro nei diversi contesti economici e sociali, poiché dalle differenze di censo discendono altre condizioni: peggior condizione alimentare, difficoltà di accesso all’istruzione e alle cure sanitarie etc.
In altri casi, invece, queste differenze sono ben distinte.
Tutte/i emigrano a causa di questo squilibrio enorme.
2) L’aumentata importanza dell’economia dei servizi. Questo settore produttivo ha assunto un ruolo trainante nell’attuale ciclo economico, anche della forza lavoro.
Essa è un’economia fortemente informale, la cui parte meno qualificata è tipicamente femminile; perciò è chiaro che con l’incremento settore è anche cresciuta la domanda di manodopera femminile.
3) L’emancipazione delle donne occidentali e il loro maggior accesso al mercato del lavoro ha correlativamente implementato la domanda di lavoratrici domestiche:anche se le donne occidentali continuano a svolgere un doppio lavoro, non sono in grado di dedicarvi il tempo necessario e la divisione del lavoro di cura e del lavoro domestico col partner rimane troppo insufficiente, in un contesto in cui il progressivo ridimensionamento delle politiche di welfare state, lascia notevoli lacune di tutela. Quindi, la soluzione immediata rimane quella dell’assunzione di manodopera servile. Il mercato esteuropeo, da questo punto di vista, sembra una fonte inesauribile.
Domanda: che tipo di rapporti si instaurano tra donne italiane e loro dipendenti straniere?
Purtroppo bisogna sfatare il mito della sorellanza: la diversità di classe prevale sempre sull’identità di genere e anche quando si instaura un rapporto collaborativi e cordiale tra le due donne, sullo sfondo rimane ben presente il rapporto di lavoro e il fatto che quella relazione è mediata dal denaro.
4) Il declino demografico dei paesi OCSE

In Italia l’età media è di 42,5 anni, gli ultrasessantenni rappresentano il 25,3% della popolazione (secondo paese al mondo, dopo il Giappone) e gli ultraottantenni rappresentano il 5,1% (secondi solo alla Svezia con 5,3%), il tasso di crescita della popolazione è dello 0,13%, il tasso di natalità è pari a 9,2 ogni 1000 abitanti, cioè ben al di sotto del tasso di sostituzione, la speranza di vita è di 83,5 anni per le donne e di 77,5 anni per gli uomini (The Economist “Il mondo in cifre”, Fusi Orari, Roma 2007). E’ chiaro, in questo contesto, che la domanda di lavoratori nel settore geriatrico e di assistenza domiciliare è in costante incremento, ma anche i sistemi previdenziali sono destinati al crack senza l’apporto di contributi di manodopera “fresca”.
L’ultimo rapporto INPS sul lavoro femminile, lo definisce come un fenomeno complesso, stratificato, rispetto al quale ogni ragionamento statistico è reso ostico dalla forte presenza del sommerso.
L’immigrazione regolare in Italia è cresciuta, tra il ’91 e il ’05, dal 39% al 49,5%.
Selezione di genere e stratificazione economica producono forti asimmetrie rispetto alla collocazione delle donnre migranti nel mercato del lavoro.
Le donne rappresentano il 42% della manodopera immigrata regolare.
Anche nella piccola e media impresa manifatturiera esiste una selezione di genere, rispetto alla quale l’elemento culturale ha un suo peso.
5) I ricongiungimenti familiari
6) L’aumento del grado d’istruzione: l’istruzione femminile è in costante aumento in tutto il mondo, compresi i Paesi in via di sviluppo. In diversi stati, la scolarizzazione femminile ha superato quella maschile. Questo fattore si collega immediatamente a quello di cui al numero 3), ma riguarda anche le donne che emigrano, che sono più formate e qualificate rispetto ai decenni precedenti. Avviene così che, sempre più spesso, la donna immigrata lavori anche quando il marito è occupato e si sta espandendo anche il fenomeno della microimprenditoria femminile (es.: sartorie).
7) La crisi dell’agricoltura tradizionale nei paesi d’origine
Come emerso durante la conferenza di Pechino del 1995, le donne hanno un ruolo fondamentale nell’agricoltura tradizionale. La crisi di questi modelli di sviluppo (specie in alcune aree, come l’Africa subsahariana e il corso del Mekong), dovuta alle politiche agricole occidentali, all’inurbamento più o meno forzato [Saskia-Sassen 1997], ai cambiamenti climatici etc., ha distrutto le economie di villaggio, trasformando intere comunità in sfollati interni. In questo contesto, le donne, private delle loro attività tradizionale, emigrano per poter mantenere la famiglia.
Si può ben dire, quindi, che la parola che definisce la condizione femminile, a tutt’oggi, è patriarcato.
L’economia mondiale ha l’esigenza di territorializzare i processi economici, concentrando produttive nelle megalopoli. Questa territorializzazione dell’economia produce migrazioni interne che producono una prima socializzazione al lavoro salariato e un primo passo verso la successiva migrazione transcontinentale. [I.L.O. Fort Wonen, Genève 2004]
A livello globale le donne sono impiegate principalmente nel lavoro agricolo, nell’economia informale e nel lavoro autonomo. Private di diritti e di protezione sociale, conquistano a fatica un’occupazione a tempo pieno, il part-time oscilla tra il 60 e il 90% e in Europa raggiunge l’83%
Sulla pelle delle donne sono state sperimentate forme di lavoro e di flessibilità, poi estese agli uomini. In tal senso, innanzitutto, si può parlare di una “femminilizzazione” del lavoro; in secondo luogo questo spiega perché, nei settori in cui prevale il precariato e il sommerso (che sono quelli in cui più facilmente trovano lavoro i migranti) sia maggiore la richiesta di manodopera femminile rispetto a quella maschile.
8) La rivoluzione di genere su scala mondiale.

lunedì 16 marzo 2009

LEZIONE DI LAURA BALBO 13 MARZO H. 9.00-12.30

Nell’analizzare i processi sociali inerenti l’immigrazione dobbiamo tenere presente un’interazione a tre livellii

LIVELLO ISTITUZIONALE↔LIVELLO MEDIATICO
↕ ↕
OPINIONE PUBBLICA

Ciò significa che ci sono continui input e feed-back tra un livello e l’altro. Pertanto, i media influiscono sull’opinione pubblica, ma l’attenzione e il taglio con cui seguono certe tematiche è a sua volta influenzata dall’ideologia diffusa. Parimenti, il livello istituzionale, adotta le proprie politiche sotto l’influenza dell’elettorato, ma le risposte che esso dà a un problema influisce sulla rappresentazione del fenomeno e sulla direzione dell’opinione pubblica.

Ad esempio, se inizia a serpeggiare un senso di insicurezza in seno all’opinione pubblica ed esso viene amplificato dai media, le istituzioni possono cercare di dare risposte tranquillizzanti (ciò che l’attuale governo fa quando l0’allarme concerne la crisi economica); ovvero assecondare “il ventre” della società, fomentando xcosì l’allarmismo (come avviene sul tema dell’immigrazione).

Il stema universalistico di tutela dei diritti nacque in società relativamente omogenee, ancora abbastanza isolate e nelle quali larghe fette di popolazione (donne, poveri etc.) erano escluse dalla partecipazione alla vita pubblica.
Tale sistema è rimasto solo in nuce e l’emergere di società pluraliste, la perdita di centralità dello stato nazione a favore di entità sopranazionali, la crisi dei sistemi tributari, il rafforzamento dell’interdipendenza e la centralità assunta dall’accesso e la capacità di utilizzo dell’informazione ai fini del governo dei processi economici e sociali, segnala l’urgenza di un superamento del welfare state, ma anche il rischio di una deriva neocorporativista.
Le nostre democrazie rischiano di divenire democrazie di “diritti segmentati”.
Il com’unitarismo ha delle positività, ma rischia di isolare i gruppi etnici.
Non va neppure trascurata l’incidenza che hanno sulla tipologia di intervento approntata dall’ente pubblico la struttura del territorio e la preesistenza di servizi e reti di protezione sociale
Il terzo settore si impone come modello futuro.


Non ci sono solo aspetti negativi: , la molteplicità porta con sé nuove prospettive.
Molta attenzione va rivolta agli elementi comuni tra NOI e LORO.
Bisogna cercare le liaisons in grado di valutare questi elementi, evidenziando anche le convergenze di interessi. Non si può né si deve, cioè, cadere nella trappola di discorsi pietistici e anche mistificanti sullo straniero “buono” (quasi una riproposizione della logica del “buon selvaggio”) e sull’accoglienza caritatevole. Si deve, piuttosto, evidenziare che una società dinamica che pluralista è più sana, prospera e tendenzialmente migliore di una chiusa. Che il pluralismo crea conflittualità e tensioni nelle fasi di trasformazione, ma una volta incanalato e guidato, rafforza il “sistema immunitario” di una democrazia [Popper]
Sorge così l’esigenza di spiegare che non ci sono solo motivi etici, ma anche semplicemente utilitaristici, per sostenere i processi d’integrazione.

Quando la presenza organizzata di un determinato gruppo riesce anche a produrre qualità? Ad esempio, in che modo e a che livello la presenza organizzata di donne a vari livelli del/nel corpo sociale riesce a produrre una tematizzazione in termini di genere? Sulla stessa linea si pone il problema di stabilire come e quando le pratiche quotidiane si istituzionalizzano: problema centrale nel nostro caso, giacché non è possibile un’integrazione calata dall’alto, senza una traduzione nelle pratiche quotidiane di tutti gli attori sociali.

Ognuno di noi usa delle “etichette”, perciò non possiamo trascurare l’importanza che l’uso del lessico gioca nei processi di integrazione/esclusione.
Attraverso la categorizzazione si svolge un processo di costruzione dell’immaginario sociale. A tal proposito, basti citare il ruolo svolto dalla centralizzazione delle anagrafi laiche nell’edificazione degli stati-nazione. Dare il nome è sempre un atto “demiurgico” [Derida].

Ogni espressione è una stratificazione di significati che ne raccontano la storia.
In Italia si sta costruendo un linguaggio sull’immigrazione e dalla direzione che assumerà questo linguaggio dipenderà la formazione dell’immaginario sociale, ergo le dinamiche integrazione/esclusione a nei tre livelli, secondo le reciproche interazioni sopra viste.

Uno degli obiettivi dovrebbe essere quello di costruire il quadro dei processi in corso: seconde generazioni, ruolo del terzo settore, ruolo delle comunità di migranti.

BIBLIOGRAFIA:

L. Balbo In che razza di società viviamo? Bruno Mondatori
Geneviève Makaping
Kossi Emla Imbarazzismi e Imbarazzismi 2, Ed. Dell’Arco